Intervista di Walter Chiereghin
Ci incontriamo nel suo studio, un ex locale d’affari sotto l’appartamento del condominio dove vivono Aldo Famà con la moglie Giuliana, soluzione comoda sotto ogni aspetto, salvo che per parcheggiare una macchina. Sono ricevuto, come sempre, con amichevole accogliente cortesia nei locali ingombri dei dipinti ritirati dopo la mostra antologica di Palazzo Costanzi che ha visto il suo lavoro protagonista dell’esposizione, dal 15 febbraio al 11 marzo scorsi. Su un cavalletto, un dipinto poco più che abbozzato: uno schema geometrico fissato a matita sulla tela, nel quale soltanto due triangoli sono dipinti, striature di rosso sopra una base materica bianca.
È la prima volta che mi capita di vedere un tuo dipinto ancora poco più che abbozzato. Lavori sempre a questo modo, impostando lo schema generale e poi mascherando lo sfondo per dare rilievo alla figura geometrica che intendi porre in evidenza?
Beh, sì, è necessario partire con un’idea ben chiara circa la composizione che si intende sviluppare, per cui inizio da uno schema in matita, poi, come hai detto, una volta mascherato opportunamente il resto della tela, agisco prima nelle parti cui voglio dare rilievo attraverso lo spessore del colore a olio che utilizzo, com’è stato per questo bianco che vedi. Tutto il resto è successivo a questo primo intervento, seguendo sempre lo schema compositivo che avevo impostato all’inizio, a matita.
Cominciamo allora con ordine. Mi sai dire quando hai manifestato un interesse forte rispetto al disegno, alla pittura?
Probabilmente ne sono affascinato da sempre, ma quando questa mia idea si è rivolta agli altri, a un primo pubblico, è stato negli anni dell’adolescenza, quando frequentavo l’oratorio dei cappuccini di Montuzza. Ho iniziato da lì, anzi ti mostro un manifesto che avevamo creato allora (estrae da una cassapanca e dispiega un foglio di grande formato, illustrato da alcune vignette, una sorta di fumetto). Era allora poco più che un gioco, facilitato da una predisposizione naturale, che credo di aver conservato tuttora.
Mentre seguitiamo a parlare, si accosta alla scrivania alla quale sono seduto e, su un minuscolo pezzo di carta, con un’invidiabile veloce sicurezza, disegna a penna la caricatura di un perplesso ragazzino in calzoni corti, che io mi porterò via al termine del colloquio.
Devo dire che difficilmente si potrebbe individuare in schizzi come questo l’autore delle opere che attualmente esponi, come del resto queste ultime non testimoniano affatto della facilità con la quale sai ancora accostarti a un soggetto figurativo, leggero come questo che hai creato ora, in un minuto. I tuoi non avevano pensato a darti una formazione in ambito artistico?
No, una volta finite le scuole medie, i miei hanno ritenuto opportuno iscrivermi a un Istituto tecnico commerciale, il “Da Vinci”, per conseguire il diploma di ragioniere e io mi sono adeguato, ma ben presto mi resi conto che non era quella la mia via, mi sentivo chiuso, non avrei più potuto disegnare. Siccome facevo anche attività atletica, terminati gli studi di ragioneria, sono stato per tre anni a Roma, dove ho studiato all’ISEF, l’Istituto superiore di educazione fisica. Questo mi ha consentito poi di avere un lavoro che mi lasciava il tempo per altre mie attività, soprattutto per dipingere, e soprattutto di avere a disposizione tre mesi, durante le vacanze estive. E oltre a questo, certo, la vicinanza con i ragazzi, lo stimolo che ti deriva da loro… Per una decina d’anni ho insegnato fuori Trieste, a Udine, anche vicino a Venezia, poi sono tornato qui.
E quindi hai cominciato a disegnare, come mi hai mostrato poco fa, assecondando la tua predisposizione ad agire come vignettista, facendo caricature?
Non solo quello. Ritengo per esempio di avere anche una discreta capacità come ritrattista. Qualcuno può essere indotto a ritenere che da molti anni mi dedico all’astrazione perché ho carenze dal punto di vista del disegno o della pittura, che sia incapace di fissare sulla tela figure realistiche, ma non è così. Semplicemente, da molto tempo a questa parte, non mi interessa più quell’ambito creativo: ci sono altri che lo fanno egregiamente, ma a me interessava esprimermi in altra maniera.
Hai iniziato ad esporre da giovane, molti anni fa?
Sì, la prima personale è stata nel 1982, ma in precedenza avevo partecipato a numerose collettive, fin dagli anni Sessanta.
Avevi iniziato con il figurativo, in forme neoimpressioniste?
Sì, come moltissimi altri, ma abbandonai ben presto quella maniera: mi interessava sperimentare forme nuove, inventare realtà diverse, che mi vengono suggerite dalla mente più che dagli occhi.
Ti sei quindi rivolto a una pittura d’astrazione, che anche ora declini nelle tue composizioni geometriche dalle decise contrapposizioni cromatiche. Hai avuto dei compagni di strada, degli altri artisti con i quali collaboravi o collabori tuttora?
Compagni di strada, non direi. Attenzione al lavoro degli altri quanta ne vuoi, cerco sempre di vedere come si muovono, visito mostre, parlo con i colleghi, ho il massimo rispetto per il lavoro degli altri, anche quando è distante dal mio; per qualche tempo, all’inizio degli anni Ottanta, ho fatto parte del cosiddetto Gruppo 5, assieme a Moretti, Sivini, Steidler e Stocca, ma non direi che fosse più di un gruppo di amici che facevano qualche mostra assieme. Fondamentalmente devo riconoscere che sono abbastanza un solitario.
Direi che la tua nuova frontiera creativa è costituita dalla tridimensionalità, che ora ti è concessa grazie alla stampante 3d.
Era una cosa che mi intrigava da tempo, già molti anni addietro avevo tentato la via della scultura, ma trasporre oggi le mie opere costruite esplorando la possibilità di far diventare dei solidi le figure piane è un’idea che mi ha attratto e che sto realizzando grazie all’aiuto che mi viene dato da chi dispone del software e degli strumenti hardware per creare lo scheletro, il supporto tridimensionale di quanto poi completo intervenendo con strumenti – pennelli, forbici e quant’altro – che riesco a padroneggiare per una consuetudine ormai antica.
Uscendo dallo studio, dopo un caro saluto a lui e alla signora, col foglietto con la figurina che ha disegnato infilato nel mio taccuino, penso che sarà anche antica la consuetudine che Famà può vantare coi suoi mezzi espressivi, ma so per certo che questa sua voglia di innovare testimonia di una volontà e di una fantasia che molti giovani farebbero bene a invidiargli.
Pubblicato su Il Ponte rosso n. 44, aprile 2019