Conoscere Aldo Famà è sempre un dono dello spirito. La sua inscalfibile purezza di fondo, la sua saggia semplicità incantano chi lo avvicina e chi più ancora ha una lunga frequentazione con lui.
È passato attraverso le esperienze più crude e dolorose della vita sempre con animo intatto acquistando ogni giorno in ricchezza interiore e affinando la sua arte con risposte sempre più convincenti nella forma, nel colore, nella palpabilità del tratto, nell’armonia dell’insieme, nella costruzione stessa dell’idea. E allora ci viene da pensare al grande poeta che vive in lui: è sufficiente accostarci alla liricità dei titoli dati alle sue opere per convincerci di ciò; e allora consideriamo con altri occhi il suo fare musica: suonare il trombone o la chitarra diventano complemento necessario al suo essere artista.
Perchè in lui tutto diventa melodia: suono e parola magica che si saldano col segno, nel segno trovano linfa per completarsi a vicenda e cantare l’inno alla luce, alla vita, al ricordo, al dolore che rafforza, al viaggio della mente, a ogni accordo anche se amaro, alle stagioni, all’esistenza in ogni caso. Ed è per questo che la sua arte nasce e si consolida nella forma astratta: in essa il poeta Famà esplica tutte le sue fantasie, vede muoversi ogni fantasma della mente e del cuore, in essa costruisce altrettante forme viventi che rappresentano stati d’animo, situazioni, armonie, occasioni, luoghi del pensiero più che di una realtà contingente. Perché non gli interessa la figura in quanto tale o il paesaggio nella sua oggettività apparente ma quanto essi sottendono, quali sentimenti, intuizioni, emozioni, sussulti, riflessioni, ricordi, analogie, sensazioni possono produrre consapevolmente o inconsapevolmente.
Le opere infatti di Famà attestano sempre l’interiorità, quasi categorie filosofiche; da ciò la purezza dell’astrazione che tuttavia trae forza e vitalità dall’uso che egli fa dell’olio e delle tempere – quasi impastati nel caldo tiepido della sua voce – da quella «materialità» che stende sulla tela, da quei guizzi di colore, sempre tuttavia composti, che illuminano le campiture, da quella specie di piccoli bulloni che saldano la parte materica o centrale delle opere; quasi ossatura del tutto, punti fermi per l’artista, simboli senz’altro di un qualcosa che da sicurezza, che mette pace nell’animo, che promette un porto sicuro: che cosa infatti di più perfetto del cerchio anche se da Famà rappresentato imperfetto proprio nell’assunto della limitatezza umana?
Ma poi i solchi che incidono la materia, i «fili» che dipartono dalle zone compatte, i reticoli e i geroglifici parlano tutti il linguaggio delle voci che infittiscono la mente e s’appressano all’animo, stilettate o carezze, sospiro o sussulto, gioia di bimbo o dolore del distacco, felicità nel ricordo o paura del pericolo. Rossi, neri, mattone, grigi, senape e quel giallo in tutte e in tutti gli impastamenti: dal brillante all’ocra, al verdastro e per ogni colore una sensazione, un palpito, una risposta.
La geometria delle linee in Aldo Famà mi riporta ancora una volta alla sua purezza d’origine, al disegno armonico della sua esistenza, a quella pulizia formale che è soprattutto pulizia interiore. Così le due strisce verticali che molto spesso denotano o «decorano» in qualche modo i suoi quadri sono come colonne doriche che impastano solennemente il suo sangue, severità d’impostazione e serietà d’intenti.
Nella pietra ora ha cominciato a incidere i suoi segni, dalla pietra riceverà senz’altro risposte austere ma altrettanto poeticamente gratificanti.