“Creare è ancora possibile” scriveva Giulio Carlo Argan nel lontano 1956, quando un giovanissimo Aldo Famà cominciava timidamente ad affacciarsi sull’universo della creazione artistica. A mezzo secolo di distanza, e se ci si vuole credere, la frase non ha perso d’efficacia per chi, come il pittore triestino, affronta l’atto creativo con immutata fiducia nelle infinite combinazioni che segni e colori gli offrono.
Apparentemente fredda e rigorosa, la pittura di Famà è in realtà la risultante di un processo che vive di intuizioni successive, prima rapidamente schizzate a china, con infinite varianti e ripensamenti, poi composte e strutturate dal punto di vista cromatico, quindi ancora provate in sedicesimo, su piccole tele, e infine cresciute, amplificate, ingigantite, lievitate al formato voluto. Ma non è un’operazione meccanica, incredibilmente sono opere sempre nuove, mai uguali a loro stesse, che si ricreano e ricompongono come se fossero dotate di vita autonoma.
Famà è un pittore all’antica, che non crede alle facili scorciatoie che la tecnologia gli offre, e lo dimostrano le attenzioni che riserva alle sue creature: gli inserti in rilievo che dominano da molti anni le sue composizioni non fingono, non imitano e non alludono a niente, la materia di cui sono composti non è altro che il colore stesso. Può essere inciso, tormentato, opacizzato, persino screziato da altre e contrastanti tinte, ma non è nient’altro che nudo colore ad olio steso a spatola, ripreso e lavorato poco prima che si secchi. Rielaborate sono anche le geometriche campiture di colore puro, dove ogni possibile lucentezza è soppressa con metodiche tamponature di diluente. Non che mancassero alternative, in anni recenti Famà ha sperimentato anche l’inserimento di cartoni da imballaggio strappati per ricomporre la sua sintassi pittorica, ma quest’ultima vive di se stessa e non ha bisogno di aiuti esterni. In tutto questo accanimento che può apparire gratuito c’è indubbiamente mestiere, applicazione, studio e lunghe sperimentazioni, ma c’è anche e soprattutto sensibilità, sentimento e ricerca di interne armonie.
È una pittura serena, che non dà risposte perché non si pone domande, e che esiste solo nelle sottili architetture, sognanti e sospese, che nascono dall’incontro/scontro di forme e cromie. Contrappunti musicali si è detto, nutriti anche dalle partiture jazz che echeggiano discrete nello studio dell’artista.
Famà è lento, si è intuito, ma si tratta di una lentezza involontaria e dovuta, che si alimenta dalla pazienza certosina con cui studia, progetta e realizza, sedimentando nel frattempo impressioni che ci restituisce in forma di titoli che gli costano quasi altrettanta fatica dei dipinti cui si riferiscono, azzeccati come sono nell’andare a ricomporre i tasselli di un itinerario poetico che trova origine nei rapidi tratti di penna con cui immagina le sue tele.
Ci possiamo fidare di questa lentezza, come di lui si fida la gatta di strada che aspetta pazientemente l’apertura del suo studio per addormentarsi soddisfatta sulla poltroncina a lei riservata.
Massimo De Grassi, Aldo Famà gli imprevisti dell'astratto, in Mostra personale di Aldo Famà, pieghevole della mostra di Trieste, Università degli Studi, Sala degli Atti, Facoltà di Economia, 13 ottobre 2006 – 26 gennaio 2007