Una leggenda vuole che Cimabue avesse scoperto la virtù di Giotto nell’ umile pastorello che raffigurava una pecora su un sasso. Certo è invece che un padre cappuccino del Convento di Montuzza, il quale addestrava i ragazzi nel footbal, intuì il talento artistico di Aldo Famà e gli affidò il compito di compilare il giornale murale della squadra. Aldo comprese, davvero precocemente, che, per ottenere ottimi risultati, non doveva tentare di imitare le sagome tipiche dei compagni e dell’istruttore, ma utilizzare un repertorio di forme, spesso elementari, sorta di sigle ideogrammatiche, che trovava già pronte nelle vignette di Jacovitti sul “Vittorioso”, illustratore in modi parodistici che sfociano nell’assurdo. Da allora Aldo, metodico e tenace, ha percorso un sentiero rettilineo che lo ha condotto all’astrattismo geometrico. E’ stato agevolato dalla forte predisposizione all’eidetismo, attitudine cioè al formarsi di immagini retiniche che, a differenza delle consequenziali, non hanno rapporto di opposizione (inversione chiaroscurale e cromatica) rispetto alle percezioni precedenti. Un esempio viene da Teatro della memoria (2006), originato dalla tenda a lamelle bianche che copre la grande vetrata antistante il suo tavolo di lavoro.
La sorte, o, per noi che crediamo, un’ispirazione che viene dal profondo, lo ha portato a incontrare nei maestri della sua iniziazione due formidabili eidetici. Carlo Pacifico, coniuga, forse per la sua ancestrale radice greca, gli sfondi dorati delle basiliche bizantine all’allora avanzatissima dissoluzione delle forme nell’informale. Spacal ha avvertito la vocazione all’arte quando, a 27 anni, recluso nel carcere romano di Regina Coeli, insieme a coloro che saranno fucilati per un attentato contro il fascismo, si consola proiettando sulle bianche murature della cella le immagini dei dipinti devozionali su vetro, ricordi dei pellegrinaggi ai santuari montani, che ornavano le altrettanto bianL’AUTOBIOGRAFIA che pareti della stanza nella casa della nonna sul Carso, dove dormiva durante le vacanze. Le qualità innate sono valorizzate dalle discipline esercitative nelle arti sorelle, per prima la musica, coltivata con ottimi risultati dal suonatore di jazz. Del jazz, che scompone ritmo e timbro e li antepone alla melodia, gli è venuta la risorsa dei poligoni accostati per contrapposizione sequenziale, contrapposizione da figura in figura, sia della semplice e indipendente forma, sia della singolare sostanza cromatica di ciascuna.
“Nascono così - come bene a visto Laura Safred - delle originali strutture di relazione, attivate dal movimento virtuale delle zone cromatiche, in una sorta di equilibrio dinamico tra liscio e ruvido, spesso e sottile, mosso e fermo”. Sono le paratesi musicali che si vedono, anzi si sentono, in Il vento dei ricordi del 2010. Tipica di Famà è la marezzatura delle due porzioni di cerchio all’incontro dei due orizzonti, duplicità che incentiva scarti cinetici nell’osservatore. Famà chiama quella granitura “ardesia”, pittura materica, in apparenza fra l’organico e il minerale, che dà alla testura astratta la consistenza di una millenaria sedimentazione geologica ed è la risultante di una complicata operazione di sua invenzione, invenzione fedelmente conseguente ad una sorta di artigianale alchimia. Su un alto strato di colore ad olio bianco l’artista opera prolungati interventi di tecnica incisoria che comportano coloriture, prosciugamenti e abrasioni delle tinte. Nel contempo, dalle arti del movimento, grazie alla sua formazione di atleta, gli è cresciuta nell’intimo la consapevolezza della rispondenza fra corporeità e rappresentazione, mentre nella professionalità educativa ha tenuto fede ad una missione morale fondata sulla muta eloquenza dell’esempio e sulla reciproca confidenza nel dialogo, qualità rispecchiate con grande semplicità in pittura.
Il nodo centrale di quell’ambiente mentale è nella tesa attenzione alla sfera propriocettiva. Nel caso, ad esempio, di un saltatore in volo, il movimento muscolare è guidato soltanto dalle sensazioni interne e la traiettoria può essere indicata schematicamente dalle diagonali di una sequenza di parallegrammi, i cui lati sono commisurati ai vettori di forza dalle spinte antagoniste. Se noi supponiamo che nel cervello di un saltatore rimanga un engramma, come frutto del vissuto neuronale, l’equivalente pittorico di tale memoria del dinamismo delle forme è stato realizzato dal futurismo, e forse meglio che dagli altri in Prampolini. Nel corso del lavoro, il patrimonio immaginativo dell’artista si arricchisce di molti apporti ed emergono più intensi quelli prelevati dall’avanguardia storica, Klee e Kandinsky, così da restituire l’opera alla tradizione del moderno, che tanta parte ha nella costituzione della civiltà democratica, come si constata in un dipinto quale Percorso del pensiero del 2005. Questa minuta analisi dei processi ghestaltici potrebbe indurre a ritenere, erroneamente, che si voglia tornare all’antropologia positivistica di un Cesare Lombroso, mentre è vero l’opposto. Soltanto dopo aver preso atto delle causalità naturali, rifiutato quindi l’ingenuo appello a volontà ultraterrene che scatenerebbero fulmini e terremoti, è dato di superare il dato naturale e di istaurare la volontà umana che crea da se stessa, sulla propria autonoma decisione, la vita dello spirito. Lo si avverte chiaramente nell’opera A occidente della memoria, del 2001, dove la pesantezza densa e oscura della terra grava dall’alto, mentre in basso si apre il vibrante chiarore aurorale che l’operare dell’uomo-artista dischiude, sollevando la coltre delle paure notturne con l’apparato delle pure forme razionali. Acquisito il controllo consapevole del mondo sensoriale, Famà trova nuovi spunti e ripercorre quanto aveva appreso dai suoi maestri. Agli effetti alterni dell’inversione positivo-negativo nella tecnica xilografica, recepita da Pacifico, si aggiungono altri effetti di inedita modulazione cromatica provocati dall’alterco, in Santomaso e in Music, fra il ricordo naturalistico e le variazioni sognanti, alterco che Famà personalizza in numerose opere, fra cui Civiltà delle macchine, incisione del 1984, Canto dell’anima del 2006, Canto d’autunno del 2009.
Più impegnativa la meditazione su Spacal, che è stato il suo riferimento principale. Spacal sublima gli elementi del suo paesaggio ancestrale, li astrae e ne trae leggi compositive e coloristiche generali e profonde, fondamenti universali del proprio particolare e individuale paesaggio interiore. Famà compie un’operazione analoga e la riversa sul versante progettuale, conseguente alla sua fiduciosa attesa di un risultato che premi gli uomini di buona volontà, come nell’impalcatura di Declinazione astratta, 2011. Prende avvio in questo modo l’autobiografia dello spirito, sorta di diario sul trascorrere dei sentimenti più autentici, svincolati dai fatti esterni e dalla passionalità degli scatti immediati. E’ uno scivolare di configurazioni memorative, dalla drammaticità del progetto costruttivista, che abbiamo appena citato, alla dolcezza melanconica di Memoria antica, 2008, un volo di nubi leggere, alimentate da vene ed arterie, sui toni timbrici accordati melodicamente fra di loro, tanto armoniosamente da sembrare veramente tonalità del paesaggio animico. Curioso di saggiare i limiti del cosmo immaginativo che sta costruendo, Aldo si accosta ad arti contigue alla sua poetica pittorica: nelle invenzioni di maggior slancio enunciativo prende dalla cartellonistica (Spazio della mente, 2004 e Inquietudine urbana, 2011), mentre in altre configurazioni, aperte sul gran teatro del mondo, investe esiti scenografici (Ardesia dei giorni, 2009 e I giorni dell’autunno, 2011).
Spesso dominante nei quadri di Aldo Famà è la centralità del tema, per cui le successive metamorfosi sono sempre nel mirino di una consapevolezza creativa e di una attenzione operativa, parametri che mettono perfettamente a fuoco le fasi esecutive. Da ciò una continua verifica ermeneutica della propria processualità ontologica, a propria volta correlata alla filogenesi del pensiero logico e figurale dell’Occidente. L’accentramento compositivo e la scomposizione dei poligoni si rifà all’irrisolta bivalenza dell’uno e del molteplice nel Parmenide di Platone. Da qui si dispiega l’interpretazione dell’universo dentro l’ineludibile misura umana, secondo l’insegnamento di Socrate, e in rispondenza ai sentimenti e agli impulsi dell’irripetibile carattere individuale di ciascuno, scoperta della soggettività nel personalismo cristiano. Si fa quindi tappa sulle arti mnemotecniche e combinatorie del Rinascimento, e si prosegue fino a giungere, alle soglie del Novecento, con il ricupero provvisorio, ma necessario, della teosofia gnostica, simbiosi orientale, e della sintesi del pensiero antico nella filosofia di Plotino, alla risoluzione, mediante l’astrattismo geometrico di Casimir Malevich e di Piet Mondrian, della crisi fra il soggettivo e l’oggettivo, su un ideale piano intermedio di idealità progettuale. Aldo Famà si muove, come molti artisti inclini alla ricerca avanzante, lungo il flusso centrale di questo grande fiume dell’evoluzione creativa, operosa nel pensiero e nell’azione. E’ un’evoluzione che a volte sospinge in avanti coloro che si lasciano trasportare dall’impeto innovatore. Ma in altri casi, se diamo fede alla concezione di Schelling, è l’artista con le sue opere che anticipa i modi di vedere e di fare la realtà che la critica della ragione riflessiva raggiungerà soltanto più tardi.
E’ impossibile distinguere quanto vi è del primo e quanto del secondo atteggiamento in una singola opera, anche perché, come esemplificheremo dopo, la formazione del nuovo avviene per mezzo di frequenti, incalzanti, decisivi scambi reciproci fra artisti, spesso amici e vicini di casa, ma talvolta anche agli antipodi nel mondo unificato dal globalismo, artisti che appartengono alla stessa corrente o a indirizzi estetici affini. Importa però rilevare subito che l’apporto innovatore ha grossi effetti nella società civile, in conseguenza della radicale modificazione del profilo professionale e del ruolo dell’artista, profilo e ruolo che modellano tutte le altre figure delle umane specializzazioni, anche se il rozzo e volgare pragmatismo dei cosiddetti furbi pretende di escluderlo. In effetti, dallo stregone-ritualista delle tribù primordiali si arriva oggi al produttore di provocatorie installazioni, ed è sempre dall’artista che viene l’input ai nuovi modi scambio, dal baratto alla borsa online. Il tratto della storia spirituale del Novecento che Famà ripercorre muove dall’iniziale partecipazione al milieu postimpressionistico, nel quale gli stimoli dell’esistenzialismo provocano la frammentazione e dissoluzione del paesaggio naturale. La sua volontà di concretezza progettuale reagisce e determina una precisa configurazione dinamica fra figure geometriche (si veda, fra le opere recenti, Il silenzio delle stelle del 2007), momento che potrebbe trovar riscontro nella mostra «Ricostruzione futurista dell’universo», ordinata da Balla e Depero a Milano nel marzo 1915 e meritatamente rivalutata da Enrico Crispolti nel 1980. Nell’ambito a noi più vicino, l’intervento di artisti della generazione di Aldo Famà si qualifica lungo il corso delle trasformazioni successive, dall’artista medievale, assimilabile agli altri artigiani che si affermano, ciascuno nel proprio mestiere, soltanto per la destrezza provata con la qualità del prodotto, all’artista contemporaneo, intellettuale che concentra il proprio operare nella fase progettuale, affidando ad altri l’esecuzione. In questo progressivo affrancamento dal servilismo banausico della prestazione e dalla subordinazione ai difetti e ai vizi di noi mortali, Famà vive un momento importante e giunge dalla segnatura manuale sulla carta e sulla tela alla progettazione dell’arazzo Passeggiata notturna del 1993 e alla costruzione di quadri con cartoni variamente colorati e ondulati e con frammenti di stampati nel ciclo Traccia del tempo del 1996.
E’ da rilevare che l’introduzione delle tecniche del prefabbricato non uccide le antiche arti della pittura, della scultura, dell’incisione, ma anzi consente alla rappresentazione tradizionale di uscire dal bagno purificatore del dadaismo e del concettualismo, forte di una spiritualità libera, che essa sola può esprimere, dopo aver colto le infinitesime sfumature di contradditori sentimenti, svegliati dall’incalzante sequenza di impressioni, nel rapido flusso della civiltà dell’immagine. Di ciò diremo in conclusione. Riprendiamo ora le considerazioni sugli scambi fra artisti. Aldo Famà ha avuto ottimo fiuto nello scegliere i maestri e i compagni più adatti. In seguito, per la vicinanza ad alcune personalità di spicco, e complice anche il caso, che spesso aiuta chi imbocca la buona strada - lo Spirito soffia dove vuole - si è ritrovato, quasi senza volerlo, con gli artisti di più alta qualità nella nostra terra. Abbiamo detto di Pacifico e di Spacal. In seguito Famà insegna all’Istituto statale d’arte di Udine e, familiare a Dino Basaldella, conosce i di lui fratelli Afro e Mirko.
Passa quindi, come professore, all’Istituto d’arte di Trieste, e collabora fraternamente con Livio Schiozzi, Girolamo Caramori, Riccardo Bastianutto, Pedra Zandegiacomo. Viene il momento di entrare in un cenacolo di pittori triestini innamorati delle geometrie astratte, che lavorano a contatto di gomito: Bruno Ponte, Claudio Moretti, Ennio Steidler, Olivia Siauss, Claudio Sivini, Sergio Stocca. Gli intenti sono concordi e Aldo ritrova se stesso fra i colleghi, grazie anche all’indole sua: non ama la spietata concorrenza, ignora invidie e rivalità, non punta a emergere nel gran successo mondano. Appartiene a una categoria tipologica oggi quasi completamente scomparsa, della quale ci sarebbe estrema necessità: persone modeste, moderate e appartate, serie nella professione e nella famiglia, ma animate da un ansioso bisogno di dare testimonianza di quella singolarità individuale che coincide con il senso della propria vita. E’ conseguente a queste premesse il confluire del piccolo cenacolo in un più vasto organismo, sodalizio che, in continuità con la secolare e gloriosa tradizione patriottica del Circolo Artistico, raccolse oltre settanta pittori, scultori e incisori triestini nelle file del Sindacato autonomo artisti, senza distinzioni di nazionalità, religione, partito e tendenza estetica. Famà diede al Sindacato il suo apporto e fu anzi fra i pochissimi, certo il più fervido, a tentare di farlo rivivere dopo che, espropriato per tre volte delle proprie sedi, ne fu annullata l’indipendenza che ostacolava le pretese egemoniche della partitocrazia. Inoltre fu presente nel direttivo dell’analogo sodalizio friulano.
Coltivò altresì con pari intensità le amicizie personali. Fra queste mi sembra giusto, anche se non pertinente a questo scritto, evocare un suo compagno di scuola, compagno durante i cinque lunghi e intensi anni dell’adolescenza, Giorgio Ruini, che Aldo ammirò per la straordinaria versatilità musicale, capace di impratichirsi in breve tempo di qualsiasi strumento, ma del quale, come tutti, anche i familiari, ignorò lo splendido dono di poesie che Giorgio lasciò in eredità, morto improvvisamente di malattia cardiaca a 49 anni, pubblicate alcune postume con una nobile prefazione di Cristino Sangiglio e che, affiancate dalle figure astratte di Aldo, potrebbero essere collocate - lo Spirito soffia davvero dove vuole - a conclusione della resistenza silenziosamente combattuta nella grande stagione dell’utopia ermetica.Torniamo ora all’attualità dell’arte.
Vogliamo concludere con il quadro Momento d’inverno del 2012, dipinto che, abbozzato sul grande bianco di quel fondo all’apparenza calcinato, sembra uno schizzo incompiuto. Ed è invece l’idea del vuoto, vuoto che permea di sé una sorta di muro, bianco ma privo persino del colore bianco, idea dell’assoluto sul quale il passo sospensivo della pura intuizione creativa lascia la lieve ombra luminosa e trasparente delle forme geometriche, prive di ogni aggancio naturalistico, investite dal compito più alto che Hegel assegna al pensiero umano: nientificare il niente. Da qui trae fondamento l’autonomia della morale e prendono le mosse quelli che il critico Paolo Rizzi chiama gli apologhi di Aldo Famà, per cui “ricama ed allude, contrappone ed aggiusta, riportando infine la bellezza della forma ad un significato morale”.
Giulio Montenero
Trieste, 21 marzo 2012, primo giorno di primavera