La perfezione formale potrebbe abbagliare. Ma i quadri di Aldo Famà non sono soltanto dei raffinati giochi estetici, come potrebbe apparire ad occhi frettolosi: sono anche e soprattutto (come dire ?) dei piccoli apologhi morali. Si tratta di aggiustare la chiave di lettura, cioè di leggere dentro.
La prima cosa che, in questo senso, si nota è la dialettica tra elementi geometrici astratti bidimensionali e una massa screziata e rilevata che costituisce generalmente il nucleo centrale, o comunque più otticamente evidente, della composizione. È da qui che parte una interpretazione simbolica dei dipinti: e quindi una sua trasformazione in contenuti di ordine etico.
Vediamo le cose più da vicino. Il fondo del quadro è solitamente permeato di un rigore schematico, con partizioni nitide dello spazio: una sintesi che è sì di ordine formale, ma con sottili risvolti allusivi. Il riferimento va ad una linea culturale che accomuna (per citare due esempi territorialmente vicini) accomuna uno Spacal a un Santomaso. È la memoria lontana di un’esperienza che viene filtrata sulla superficie, lasciando tracce e riferimenti naturalistici. Fin qui siamo ad una sorta di sintesi razionale, come se la mente intendesse operare una riduzione euclidea del fenomeno. In questo contesto interviene una stesura che perde il contorno geometrico ed anzi par fermentare e lievitare come una materia porosa; essa si inserisce e si sovrappone al nitore della forma sottostante con un’evidenza che, anche tattilmente, ne è agli antipodi. Ecco che si instaura la dialettica tra gli opposti. Potremmo interpretarla come una sorta di contrapposizione tra senso e ragione, tra natura e intelletto, tra caos e ordine. Bipolarismo, forse manicheismo.
Che cosa prevale?
Proprio questa è la caratteristica più sorprendente dei quadri di Famà: il tentativo i conciliazione degli opposti. La sensazione è che l’artista miri ad un equilibrio che contemperi le diverse esigenze, piegandole dolcemente alle leggi di una « natura» che, appunto, riconduce tutto all’unità. Molti particolari lo fanno intendere: ad esempio i sottilissimi fili che, in non pochi quadri, paiono far librare come un aquilone la forma rilevata, dandole un che di aereo e facendola legare indissolubilmente allo spazio sottostante.
Del pari, un ritmo invisibile guida sempre la composizione, come un’armonia musicale che si sprigiona in chiare fresche scansioni.
Questa è, almeno, la mia interpretazione dei quadri di Famà. Azzardata? Non credo.
Oggi dovremmo essere adusati a percepire i reconditi significati simbolici che si celano nell’immagine. Da Friedrich a Fuseli in poi, tutta la storia dell’arte è intessuta di queste corrispondenze sotterranee, che si ribaltano all’interno di noi stessi. La definizione di apologhi morali nasce, nel caso dell’artista triestino, dalla volontà – che direi palladiana – di arrivare ad una conciliazione globale delle esperienze dell’uomo nella natura. Famà parla sottovoce, con rara discrezione: ricama ed allude, contrappone ed aggiusta, riportando la bellezza della forma ad un «significato» che non può, appunto, non essere morale. La sua è una prosecuzione, anche storicamente plausibile, delle poetiche dell’informale, secondo una concezione globale dell’esperienza che resta perfettamente attuale. Così, questi aurei componimenti di Famà finiscono per piacere agli occhi quanto per pacificare lo spirito.