La mia natura animalesca mi porta a fiutar pittura con ansiosa rapacità, pur essendo privo di quel fondamentale istinto – studiato dalla prossemica – che guida la bestia nel trovare le giuste distanze tra sé e l’altro. Perciò invidio gli esperti di pittura (ma non mi scambierei con loro).
Ve ne sono alcuni che si tengono lontani dal quadro, oggetto di specie sconosciuta che essi classificheranno, mentre altri si precipitano a ridosso della tela spinti dalla passione dell’entomologo.
I quadri di Aldo Famà esasperano il mio vizio. Butto sul quadro un’occhiata in tralice e parlo d’altro. All’improvviso, supponendo il quadro distratto, lo esploro tutto, tento di riassumerlo nel giro di uno sguardo e, sconfitto, desisto. Poi lo spio fingendo indifferenza e non concludo alcunché. Infine rinuncio addirittura al dipinto, tanto mi mette soggezione, e interpreto a fantasia ciò che immagino ci sia al di là della figura ricordata.
I quadri di Aldo Famà sono persone simili a me. In essi mi raddoppio, anzi mi moltiplico, come sugli specchi magici del luna park, e rivivo le vecchie contraddizioni del tempo giovanile, tempo in cui credevo che le speranze fossero solide e cementate d’impasto compatto, ma pronte a fuggire verso gli alti cieli del sogno, quanto gli aquiloni dipinti da Famà.
Allora a Trieste molti mi aiutavano in codesta illusione proiettata su disperse costellazioni, fra Spacal e Michelangelo Guacci. Il gran carro era punteggiato da Perizi, Predonzani, Righi, Romeo e Renato Daneo. Una solitaria cometa guidava Miela Reina. Bruno Ponte era giovane. Ma il giovanissimo Chersicla metteva tutto alla luce del sole. Claudio Sivini, invece, specchiava inquieti riflessi. La lontananza veneta rendeva ancor più nostra l’ironia di Pietro Lustig, generazione degli anziani alla quale appartenne un altro artista fantasioso e appartato, Carlo Pacifico, il maestro di Aldo Famà. Nel grande universo di una cultura artistica ambiziosamente estranea al desiderio di immediato consenso, in questo nostro grande universo comune, erano immersi quei pittori triestini fra cui c’è Aldo Famà. Ciascuno s’ingegnava per proprio conto a creare un suo mondo esclusivo, il più possibile diverso dal mondo del collega pittore. Perciò senza accorgersene, si allontanavano l’uno dall’altro e anche si opponevano reciprocamente, galassia in espansione. Nell’arte era qualcosa d’analogo all’esperienza che adesso viviamo, purtroppo, nella pratica.
Ma era una situazione non-pratica. Infatti confondeva al proprio interno età diverse. Il caso di Aldo Famà è al riguardo esemplare. Ho imparato a distinguere e apprezzare le sue opere fin da quando, un quarto di secolo fa, incominciai il mio attuale lavoro. Di persona, peraltro, l’ho conosciuto soltanto in questi giorni, in occasione della mostra di cui sto scrivendo. Per lunga familiarità coi suoi quadri, me lo figuravo un coetaneo. Sono rimasto stupito nel trovarmi di fronte ad un giovane aitante e atletico. Nello stesso istante, in contraddizione con me stesso, mi ha rattristato avvertire nel suo discorso sull’insegnamento, benché investito dal forte impegno morale che Aldo Famà mette in ogni momento della vita, un’ombra melanconica, frutto dell’età matura che io invece mi ostino a collocare nella stagione entusiasta dei primi anni Sessanta, quando mi erano compagni di strada artisti, come Aldo Famà, assai più giovani di me.
In Aldo Famà il tempo non conta, perché la pittura scandisce periodi estranei a quelli della vita mondana.
Aldo Famà dipinge sempre lo stesso soggetto, indescrivibile, ma cambia di quadro in quadro il tema. Talvolta è uno scarto rilevante, quasi che il medesimo personaggio fosse interpretato da attori diversi, temperamenti persino antitetici. Nella mostra troviamo quadri simili, quanto all’impianto compositivo. Ma l’uno disciplina l’intrusione delle masse corporee e le assegna all’equilibrata certezza razionale della struttura d’insieme. Di contro, l’altro produce dapprima concretezza materiale e la appende poi all’inquietudine di aeree superfici in movimento.
Nella genesi del quadro, fra progettazione ed esecuzione, momenti separati, c’è una svolta imprevedibile.
All’inizio il quadro viene pensato come una costruzione precisa. Da ciò la partitura definitoria spietata e a volte persino ingenua dei disegni di preparazione, tracciati a solo contorno, senza alcuna notazione che riguardi i colori o il chiaroscuro. È l’assillo progettuale di un geometra dantesco – ma nei passaggi più corrivi persino geometra – il quale inventa per se stesso la propria casa, bella da vedere e ancor più bella da abitarvici dentro coi sentimenti che sono colore.
Ciò avverrà quando Famà – uomo saggio e ordinato egli riserba alla solitudine notturna il piacere di travasare sulla tela i sentimenti più forti, innestandoli all’appagante senso della sua robusta corporeità – si addentrerà paziente nello svariare della tessitura pittorica. Lavora in una minuscola veranda, aggettante a settentrione del suo piccolo appartamento. Sui pilastri sono appesi tanti, forse troppi oggetti di memoria. Anche una gabbia contenente due finti uccelli. A me pare che la veranda sia la bagnarola fuori scala di quella gabbia. Oltre il vetro si distingue a stento il nero profilo delle colline sovrastanti e il declivio punteggiato dalle luci dei lampioni e delle ville. Al di là delle colline Famà finge l’infinito e lo distilla in brevi brani di intensa pittura. Sembra stoffa operata e bisogna proprio passarci sopra le dita se si vuol convincersi che quei nodini a rilievo sono ottenuti tamponando il colore denso. Un largo brandello, o due brandelli paiono cuoio e raffigurano territori grandiosi solcati da tracciati lineari, corsi d’acqua o strade maestre che conducono ai confini del mondo. La sostanza organica si raggruma nei ritagli stretti dove viene costretta. Vessilli neri frappongono pause di sonante silenzio, prima che codesti asteroidi entrino in collisione. L’orizzonte si spezza, marca un gradino dietro agli ammassi planetari e alle scansioni geometriche. Intanto le masse grumose si gonfiano, rompono la pelle e fanno uscire gemme primaverili. L’odore si diffonde sulle grandi campiture opache e piatte dello sfondo, alleggerite dal lieve alito proveniente dalle colline.
Il tutto potrebbe fuggir via in qualche lontana galassia. Sottili fili paralleli, delicate incisioni bianche, notazioni di un ultimo scrupolo razionalista, trattengono l’ammasso degli aquiloni che altrimenti porterebbe con sé in cielo la terra e l’aria che lo circonda.
Quei fili obliqui, quelle punteggiatura orizzontali che segnano righi musicali sullo sfondo, siamo noi stessi, estremi legami con la concretezza di poesia che era ieri realtà faticosamente conquistata nella pittura triestina.